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Grande brand = ruolo appagante…siamo sicuri?

Grande brand = ruolo appagante...siamo sicuri?

Prendiamo spunto dall’esperienza di alcuni candidati che si sono trovati nella condizione di volersi rimettere sul mercato dopo pochi mesi dall’inizio di un nuovo rapporto di lavoro, in quanto la posizione che sono andati a ricoprire nella nuova azienda non rispecchia le loro aspettative.

Abbiamo osservato come questa circostanza sia molto frequente in occasione di ingressi in aziende caratterizzate da brand molto noti e di grande appeal sul mercato da parte di persone che si trovano in una fase intermedia della propria carriera professionale.

Queste persone quando vengono contattate per posizioni presso realtà blasonate, perdono di vista i contenuti reali della posizione e il contributo che il ruolo offerto può dare al profilo professionale in quanto attratti dalla possibilità di lavorare in un’Azienda caratterizzata da un grande brand.

La convinzione che un grande brand sia sinonimo di un’organizzazione perfetta e di posizioni interessanti ed appaganti per il brand ha di solito le proprie radici nel percorso universitario quando grandi aziende molto note vengono portate ad esempio in più ambiti: tutto vero finché non ci si scontra con l’effettiva operatività.

Inoltre, se all’inizio del proprio percorso professionale lavorare in un contesto più noto ed evoluto può portare ad avere un vantaggio rispetto a chi lavora in realtà anonime ( ad esempio una società di consulenza di prima fascia può metterci in contatto con clienti più importanti rispetto ad altre) questo non è sempre vero anche nelle fasi successive della carriera: quello che va sempre valutato prima di tutto è effettivamente che cosa si dovrà fare e che cosa si potrà effettivamente imparare.

In particolare, sarebbe opportuno valutare alcuni aspetti quali

  • Coerenza rispetto al percorso;
  • Reali contenuti della posizione in termini di operatività quotidiana;
  • Reale grado di autonomia nello svolgimento delle attività;
  • Possibilità di acquisire nuove competenze sia tecniche, ma anche gestionali, organizzative, ecc.

Tutto questo a prescindere dal nome dell’azienda.

Il consiglio è quindi quello di valutare con attenzione il ruolo, reperire informazioni concrete sul contesto e sull’Azienda e non lasciarsi affascinare solo dal nome.

Oktopous s.r.l.

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Parla il Recruiter – Cinque infallibili consigli per farsi notare da chi assume

Parla il Recruiter - Cinque infallibili consigli per farsi notare da chi assume

Il mondo della ricerca e selezione del personale nel corso del tempo ha subito e sta tutt’ora subendo delle importanti trasformazioni. Sai tenerti al passo?
Il mondo della ricerca e selezione del personale nel corso del tempo ha subito e sta tutt’ora subendo delle importanti trasformazioni, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti che le Aziende e le Società di Selezione utilizzano per individuare i candidati idonei alle posizioni da ricoprire.
Negli anni ’80 e ’90 la selezione veniva fatta utilizzando annunci fatti sulla carta stampata: i candidati potevano pertanto inviare il proprio curriculum vitae cartaceo ad un indirizzo fisico; successivamente, con l’avvento dei siti di pubblicazione di annunci on line e con la diffusione dell’utilizzo di internet e delle posta elettronica gli annunci di lavoro sono stati trasferiti sulle piattaforme digitali e per candidarsi era quindi necessario inviare il proprio curriculum ad un indirizzo email. Oppure inserire il proprio curriculum all’interno del database del sito di pubblicazione di annunci affinché potesse essere reso visibile ai selezionatori.
Nel corso degli ultimi 10 anni hanno invece preso piede gli strumenti di social recruiting, ovvero l’utilizzo dei social network, anche per far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro: questa è stata una vera rivoluzione in quanto i selezionatori possono effettuare delle ricerche direttamente sui profili presenti sui vari social network (Linkedin in primis, ma non solo) pertanto senza avere a disposizione il curriculum completo del candidato.
Oggi si parla di nuove frontiere del recruiting immaginando e creando algoritmi sempre più complessi. Questi algoritmi dovrebbero permettere di accedere ad un quantitativo di dati tale da permettere ai recruiter di individuare tutte le informazioni relative ai candidati, senza di fatto dover avere accesso ad alcun curriculum.

Appare quindi chiaro come questa evoluzione negli strumenti utilizzati abbia notevolmente modificato l’approccio: una volta le aziende palesavano le esigenze e le persone si candidavano, oggi sempre più spesso i selezionatori cercano i propri candidati senza aspettare di riceverne il curriculum. In quest’ottica pertanto non basta più avere un curriculum ben scritto, ma deve essere redatto in maniera tale da essere visibile a chi lo cerca.
Pertanto, quando scriviamo il nostro curriculum vitae e lo inseriamo nel database di un portale per la ricerca di lavoro o di una società di selezione e quando creiamo i nostri profili social dedicati alla ricerca del lavoro, dobbiamo cambiare punto di vista: non bisogna infatti porsi come obiettivo quello di raccontare la propria storia professionale, ma quello di scrivere le informazioni che l’azienda che mi interessa potrebbe cercare.
Quindi sarà importante:

1. Utilizzare dei termini di uso comune: ad esempio se mi occupo di controllo di gestione o voglio fare il controller dovrò mettere in evidenza la parola controller (nella head line del mio profilo LinkedIn o nel curriculum).

2. Tenere presente che il job title che abbiamo nella nostra azienda potrebbe non essere così chiaro nel riassumere il nostro ruolo oppure potrebbe essere talmente particolare da risultare introvabile. È buona regola quindi inserire un job title comprensibile anche se leggermente diverso da quello che abbiamo sul biglietto da visita.

3. Se si sono conseguite delle certificazioni riconosciute in ambito linguistico (es. IELTS) o di altro tipo è bene inserirle nel profilo/ curriculum.

4. Considerare che non si sta scrivendo un tema o una lettera ad una persona: il nostro curriculum o profilo dovrà essere correttamente letto da un algoritmo che ragiona per parole chiave, quindi, bisogna inserire le parole giuste anche rischiando di essere meno precisi, ci sarà successivamente il tempo per poter integrare le informazioni durante un colloquio.

5. Inseriamo la città nella quale viviamo o nella quale vogliamo lavorare: se sono originario di Gorizia, ma vivo da 10 anni a Milano e voglio rimanerci scriverò sul curriculum e nel profilo Milano come città. Se scrivessi Gorizia per rispettare la residenza non risulterò mai nelle ricerche che hanno come keyword “Milano”.


Piccoli accorgimenti, ma di sicura efficacia.

Oktopous s.r.l.

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Feedback significa restituzione, non solo riscontro

Feedback significa restituzione, non solo riscontro

Il feedback rappresenta per molte aziende il momento formale e necessario per guidare la performance delle proprie persone: non sempre, tuttavia, si ha una chiara consapevolezza di che cosa sia e quale sia l’obiettivo di un’attività del genere.


Il feedback, infatti, viene spesso visto come un momento singolo, formale, a volte imposto e non come un’attività che in quanto tale presuppone una preparazione, la formazione delle persone coinvolte e la chiara definizione degli obiettivi da raggiungere.


Il feedback è uno strumento potente, se ben veicolato ed utilizzato, in grado di orientare l’operato di una persona, di aumentare la sua motivazione e di metterla quindi nella condizione di raggiungere gli obiettivi propri e dell’Azienda (che dovrebbero peraltro coincidere).

La tendenza spesso è quella di vivere questo momento in modo superficiale (finalizzato solo ad avere un aumento di retribuzione o di responsabilità) e quindi di comprometterne l’efficacia: in questo articolo vorremmo dare qualche spunto per renderlo invece profittevole.
Iniziamo col dire che il feedback è un momento di confronto fra due persone che possono avere lo stesso livello di responsabilità o meno.

In base a ciò possiamo distingue tre diversi feedback:
1. Il feedback top down: è quello più conosciuto nel quale mi confronto con il mio responsabile, il quale mi restituisce la sua visione e percezione del mio operato e/o atteggiamento;
2. Il peer feedback: ovvero quello che viene condiviso fra persone allo stesso livello di responsabilità;
3. Il feedback bottom up: si tratta di quello che una persona restituisce ad un’altra che ricopre un ruolo di maggiore responsabilità.

La versione più comune è la prima: si tratta in sostanza del confronto fatto periodicamente con il proprio responsabile, meno frequenti sono gli altri due che presuppongono una maturità aziendale e personale di un certo tipo.

Per accettare infatti di essere messo a confronto con un proprio pari o essere messi nella condizione di valutare il proprio responsabile occorre un’apertura mentale non sempre presente. Siamo infatti abituati a ricevere feedback da persone delle quali riconosciamo autorità e competenza (il nostro insegnante, il nostro superiore), meno ad accettare osservazioni dai nostri pari grado o a giudicare noi stessi l’operato di una persona che consideriamo superiore per esperienza, età o competenza.
Come può un’Azienda rendere efficace l’attività di feedback?

Valutare la capacità di comunicazione: un’idea da applicare al colloquio di selezione_Comunicazione

Bisogna innanzitutto partire dal presupposto che alla base di ogni confronto c’è una modalità di comunicazione che deve essere coerente con lo stile dell’Azienda; pertanto, sarà necessario in primo luogo allineare lo stile dei singoli a quello aziendale.
Analizzando la compatibilità fra azienda e singoli, sotto questo aspetto emergeranno convergenze e divergenze: queste ultime andranno ridotte supportando gli interessati con dei percorsi per insegnare loro a comunicare in modo costruttivo.
In secondo luogo, va considerato il fatto che un feedback non deve essere unilaterale: esso, infatti, va restituito nel senso che chi lo riceve lo utilizzerà per performare meglio e se questo si realizzerà il beneficio sarà reciproco (e di tutta l’organizzazione).
Il terzo aspetto riguarda la formazione delle persone a restituire e comprendere i riscontri.

Affinché questi siano efficaci sarà necessario ricordarsi:

1. Che l’oggetto deve essere il comportamento o l’attività e non la persona;
2. Deve comunicare in primis gli aspetti positivi e successivamente quelli meno positivi;
3. Deve essere modulato sulla base di chi lo riceve: ecco perché non può essere qualcosa di standard.

Questo ultimo punto è molto importante: non esiste un riscontro universale o preconfezionato. A seconda della seniority della persona, ad esempio, potrà avere una frequenza diversa perché chi è all’inizio del proprio percorso professionale può aver bisogno di maggiore supporto.
Valutare quindi l’importanza che una persona attribuisce al supporto dato dai propri colleghi e responsabili permette di pianificare la frequenza e anche i contenuti dei momenti di feedback e questo può rivelarsi molto utile anche in fase di onboarding.
Visto da questa prospettiva, il feedback non può essere lasciato alla capacità o al buon senso dei singoli, ma è necessario che l’Azienda proceda in maniera strutturata.

Un’idea potrebbe essere quella di effettuare i seguenti passaggi:
1. Valutare per ogni persona l’importanza data al supporto da ricevere (o da dare) e la coerenza fra modalità di comunicazione e stile aziendale;
2. Condividendo in modo trasparente lo scopo di un’attività di feedback;
3. Creare momento di confronto formali e informali, ma sempre all’interno di uno schema condiviso.
In questo modo il feedback diventerà un momento di restituzione ovvero di acquisizione di consapevolezza da parte di tutti gli attori coinvolti.

Oktopous s.r.l.