Categorie
Senza categoria

Cos’è il Quiet Quitting e come condizionerà il mondo del lavoro

Cos’è il Quiet Quitting e come condizionerà il mondo del lavoro

C’è un fenomeno a livello globale che forse cambierà il mondo del lavoro nei prossimi anni: il Quiet Quitting.

Che Cos’è

L’abbandono silenzioso (questa è la traduzione in italiano) in sostanza si concretizza, da parte dei dipendenti, nell’eseguire il minimo indispensabile nel rigoroso rispetto delle proprie mansioni e del proprio orario di lavoro. I lavoratori in pratica rifiutano gli straordinari, la partecipazione a nuovi progetti aziendali, non si rendono disponibili alla reperibilità. In termini più generali la sempre minore disponibilità ad aderire alla vita e ai valori aziendali. In altre parole, l’antidoto allo stress da lavoro è fare lo stretto necessario e non dare troppa importanza ai problemi che sorgono in ufficio.

I social

Tutto sembra essere partito da un hashtag (#quietquitting) la scorsa estate.

Zaid Khan, ingegnere ventenne di New York, ha raggiunto in pochi giorni 9 milioni di visualizzazioni su Tik Tok. Sui social media il dibattito e l’interesse crescono. Spaventati dal rischio burnout gli utenti ne condividono modalità di applicazione e motivazioni. 

Non sono solo i Manager che lavorano 16 ore al giorno, ma anche gli impiegati, a ricercare maggiore tranquillità sul lavoro.

Effetto Lockdown

L’esperienza vissuta da tutti noi durante il periodo di picco del covid, che ci ha costretti a lavorare da casa, ha convinto moltissimi lavoratori del fatto che si può essere egualmente produttivi ed efficienti anche non lavorando in presenza.

Inoltre, per molti la carriera ha perso di importanza, di fatto si slega dalla vita privata. La famiglia e la qualità della vita hanno scalato la personale classifica delle priorità di molte persone.

Parole d’ordine

Il nuovo mantra è “lasciare andare”, “disinnescare”. “ritirarsi”.

Anziché tirare fino a tardi in ufficio o impegnarsi nell’organizzazione di iniziative di team building o proporsi volontariamente per l’affiancamento delle persone appena assunte i sostenitori del quiet quitting rifiutano la cultura “workaholic” limitandosi a svolgere soltanto le mansioni a loro richieste.

Nel nostro Paese e nel mondo

Secondo un recente rapporto di Gallup, in Italia soltanto il 4 per cento delle persone che lavorano si dichiara coinvolto o entusiasta del proprio lavoro: è la percentuale più bassa tra quelle di tutti i 38 paesi europei presi in considerazione. In Europa il dato è migliore, ma non di molto: 14%.E’ comunque la più bassa tra quelle di tutte le 10 aree del mondo prese in considerazione. Negli USA, dove il livello di soddisfazione è in generale più elevato, esiste comunque un marcato squilibrio generazionale: il 54 per cento dei nati dopo il 1989 riferisce di non sentirsi preso dal proprio lavoro.

In conclusione

Per molte persone il Quiet Quitting è legato all’esigenza di dedicare parte del proprio tempo ad hobby e passioni (che possono rappresentare anche una nuova opportunità di lavoro) riscoperte durante i lockdown.

Non significa non avere voglia di lavorare, quanto piuttosto distanziarsi da comportamenti tossici entrati ormai nella nostra cultura lavorativa.

Vittorio Nascimbene

Founder & Ceo, Ricercamy s.r.l.

 

Mi occupo da vent’anni di Ricerca e Selezione del Personale.

Una forte curiosità unita al desiderio di trovare nuove formule per soddisfare le esigenze di recruiting dei clienti sono la mia missione.

Credo fortemente che l’unione di competenze e tecnologia rendano l’Head Hunting Smart.

Categorie
Senza categoria

Balla che ti passa: l’importanza della Digital Reputation

Balla che ti passa: l’importanza della Digital Reputation

Recentemente è comparso in rete un video privato che ritrae la premier finlandese Sanna Marin ballando con amici. Questo “scandalo” ha attratto molte critiche, ma anche molti post di supporto ad una donna e figura politica che, a parer di chi scrive, non ha fatto niente di male.

Posto che il lavoro di un premier è quello di rappresentare un Paese, e qualsiasi azione o opinione porta con sé una responsabilità istituzionale, possiamo dire che questo episodio non abbia scalfito di molto la reputazione della premier, anche grazie all’immediata solidarietà sia dei cittadini finlandesi sia di personalità dello spettacolo e della politica.

Curiosamente la stessa cosa non può essere detta dei detrattori della premier che, indignati per il comportamento della Marin, hanno espresso la propria opinione online. In definitiva, i cosiddetti “haters” hanno pubblicamente peggiorato la propria reputazione online, mentre ciò non è accaduto alla premier.

Quando parliamo di Digital Reputation parliamo della immagine che ognuno di noi si costruisce in rete. E lo fanno tutti, che lo vogliamo o no.

Se lasciamo per un attimo da parte il personal branding e la creazione di contenuti finalizzata alla “vendita” della nostra professionalità, rimaniamo con tutti quei contenuti che occasionalmente pubblichiamo su Facebook, Instagram, Tik Tok, YouTube e LinkedIn, non necessariamente per attrarre “mercato”, ma per esprimere le nostre opinioni.

Molti credono erroneamente che in uno spazio virtuale sia possibile esprimere qualunque tipo di concetto, e a causa di questo, negli ultimi anni, sono sorti fenomeni sgradevoli come il trolling, il cyberbullismo, il flame online e la diffusione di fake news. A questo si aggiunge la diffusione di opinioni più o meno informate e dai toni non sempre pacati, che non riguardano solamente la vita privata di una figura politica, ma anche argomenti troppo complessi per essere ridotti ad un post “rumoroso”.

Anche escludendo comportamenti apertamente illegali, è importante considerare quello che pubblichiamo online, poiché tutti, dai datori di lavoro ai potenziali clienti, possono leggere i nostri contenuti e giungere a conclusioni in merito a chi siamo personalmente e professionalmente.

Il Curriculum che scriviamo tutti i giorni

Non è un mistero che le aziende possano raccogliere informazioni tramite l’utilizzo dei social sui propri dipendenti o su persone che si candidano ad una certa posizione lavorativa. È quindi fondamentale possedere una forte reputazione digitale, rilevante nel momento in cui si cerca un lavoro o per quanto riguarda l’immagine di un’azienda, collaterale anche ai suoi dipendenti.

È poco utile impegnarsi a scrivere un CV impeccabile se la nostra attività pubblica online ci presenta come sgrammaticati, incoerenti o violenti. Per evitare qualunque conseguenza a riguardo, è fondamentale mantenere un comportamento adattivo e proattivo all’interno dello spazio virtuale, in modo da riuscire a coltivare una reputazione digitale che possa essere a nostro vantaggio.

Con comportamento proattivo, intendiamo l’intervento atto a proteggere la nostra immagine digitale, ad esempio:

1) Rimuovere contenuti passati che potrebbero ledere la reputazione (digitale, personale e/o aziendale)

2) Evitare discussione e critiche online 

3) In caso si presenti l’evenienza, rispondere alle critiche, senza censurarle

4) Riflettere bene prima di postare qualunque tipo di materiale, cercando di anticipare quelle che potrebbero essere le criticità e le conseguenze future

5) Avere un controllo attivo sulle proprie pagine, evitando di condividere contenuti inappropriati

6) Verificare la veridicità di un contenuto prima di diffonderlo

7) Selezionare in maniera adeguata la cerchia dei propri contatti

I suggerimenti che abbiamo dato non sono preziosi solamente per chi cerca lavoro, ma anche per coloro che sono già impiegati o alla guida di aziende.

Post o commenti che ledono l’immagine aziendale o che trasmettono poca professionalità possono seriamente minare la posizione del lavoratore e costare parecchio, in termini sia di denaro sia di percezione del brand, alle aziende.

Unveil Consulting s.r.l.