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Il Big Quit

Il Big Quit

Caratterizzato da una sufficiente trasversalità, le “Grandi dimissioni” (Big Quit, o Great Resignation) sembrano essere un fenomeno degli ultimi tempi ampiamente degno di nota, che coinvolge l’Italia e nel resto del mondo, ed è comune tra maschi e femmine, Junior e Senior. Un significativo aumento delle dimissioni da lavoro a tempo indeterminato è stato registrato nel secondo trimestre del 2021, tra aprile e giugno: 484 mila dimissioni presentate dai dipendenti alle proprie organizzazioni (+ 85 per cento rispetto al secondo trimestre del 2020).

La correlazione tra “Big quit” e il periodo di pandemia, però, non è ancora del tutto chiara. Nicolò Giangrande, economista e fondatore della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, afferma che “Il fenomeno va monitorato nei prossimi mesi e approfondito in tutte le sue dimensioni. Siamo in un contesto che non può essere ancora definito post-pandemico e le dimissioni possono essere state determinate dai motivi più diversi: ad esempio, possono essere state decise tempo fa e rimandate a causa dell’incertezza generata dalla pandemia, oppure possono essere state una forzatura da parte delle imprese che non potevano licenziare o, anche, incentivate in vista di una propria riorganizzazione”.

Dal report 2021 di IBM (Institute for Business Value), emergono le principali motivazioni che hanno spinto i dipendenti ad allargare i propri orizzonti, e ad optare per una posizione lavorativa differente. I 14 mila lavoratori di tutto il mondo intervistati, sottolineano la necessità di una maggiore flessibilità al lavoro come motivazione primaria (32%), seguita dalla voglia di avere un incarico più soddisfacente, e che includa la messa in pratica e lo sviluppo delle proprie competenze (27%). In particolare, dai dati emerge che:

  • 1 dipendente su 5 ha cambiato volontariamente lavoro nel 2020. Generazione Z (33%) e Millennial (25%) rappresentano le fasce di età che più si sono messe in gioco.
  • Il 28% dei dipendenti intervistati ha dichiarato di voler cambiare lavoro quest’anno.

Equilibrio tra sfera personale e lavorativa, e avanzamento di carriera, sembrano quindi essere le principali ragioni del fenomeno, mosse da bisogni primari di soddisfazione e benessere personale. Le ragioni di tali necessità sono emerse, e sono state valorizzate, proprio nel periodo pandemico, ponendo i lavoratori in una condizione non abituale, diversa dalla routine lavorativa tipica, come nel caso dello Smart Working.

L’acquisizione di un certo grado di autonomia, per quanto riguarda tempistiche e modalità del lavoro, ha favorito l’acquisizione di una nuova consapevolezza per i lavoratori: non sono disposti a rinunciare alla libertà, in termini di strutturazione della giornata, e di riorganizzazione delle priorità, lavorative e non.

Il desiderio è reale, è concreto, ed emerge nei tentativi di trovare risposta. Tra le domande più frequentemente rivolte a Google, infatti, troviamo: “Come cambiare lavoro e vita?”, “Come cambiare lavoro in tarda età?”

Il settore sanitario, in particolare, ha risentito molto della pandemia, a livello di stress lavoro correlato e burn-out, ed è infatti l’ambito nel quale si evidenzia maggiormente il fenomeno delle Grandi dimissioni. Gli operatori sanitari sono stati fortemente esposti alla situazione di emergenza sanitaria, ed hanno espresso grande sofferenza psicologica nei loro racconti, caratterizzati da una costante invisibile: la paura. Il 44% degli operatori in ambito sanitario, infatti, ha espresso la volontà e la necessità di cambiare lavoro.

Diversa è la situazione per i lavoratori Junior, Millenials (26-41 anni) e generazione Z (under 25). I nuovi arrivati, infatti, sembrano seguire una filosofia lavorativa improntata sul concetto di “Si vive una volta sola”. Fuorviante e riduttivo sarebbe considerare questa impostazione come “semplicistica”, caratterizzata da maggior leggerezza e assenza di forza di volontà. Al contrario, si tratta della possibilità di credere nel domani, di pensare e progettare il proprio futuro, di formarsi per un lavoro soddisfacente, senza escludere l’ipotesi di emigrare, se necessario. I giovani, in questo senso, affianco alla loro volontà di affermazione, sembrano possedere quella spensieratezza, buona e necessaria, che spesso i lavoratori Senior relegano nel cassetto con l’avanzare della carriera.

Dai lavori logoranti a quelli cosiddetti “smartabili”, dalle nuove alle vecchie generazioni, e per motivi personali e professionali, sempre più lavoratori fanno leva sulla crescente flessibilità e delocalizzazione del lavoro, optando per la più drastica scelta professionale possibile: licenziarsi.

La sfida, per le aziende, è quindi quella di anticipare le necessità dei lavoratori, dando priorità al loro benessere, ma anche fare in modo che le persone assunte siano sufficientemente adattabili a contesti mutevoli. Oggi più che mai, contenere la fuga di talenti risulta un obiettivo prioritario.

Unveil Consulting s.r.l.

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Le regole d’oro per un onboarding efficace

Le regole d’oro per un onboarding efficace

La selezione di una persona da assumere è un processo affascinante e molto importante: non stupisce infatti come le aziende dedichino tempo e risorse a questa attività.

Quello che appare invece come molto curioso è il fatto che gli sforzi profusi nella fase di assunzione non vengano replicati nella fase successiva ovvero nel momento dell’ onboarding.

Interessante infatti è osservare come in molte realtà questo processo possa sostanziarsi nella consegna della borraccia con il logo aziendale, il badge, la presentazione rapida e indolore ai colleghi e ad una foto su linkedin. Stop.

Al di là del folclore, sono state fatte innumerevoli analisi rispetto all’ efficacia del processo di onboarding e tutte hanno evidenziato sostanzialmente la stessa cosa: nella maggior parte dei casi il processo si traduce in qualcosa di meccanico o in altre parole ci si concentra più sul “cosa fare” piuttosto che sul “come farlo”.

L’ingresso di una nuova persona in azienda presuppone certamente una formazione sulle procedure, le policy, i sistemi da utilizzare, ma tutto questo non è sufficiente o meglio non lo è più: le aziende virtuose assumo nuove persone sia per fargli svolgere delle attività, ma anche per acquisire una valore dalla persona in termini di modi di pensare, di lavorare, di comunicare, di chiedere o dare autonomia tutti elementi che vanno prima valutati e poi valorizzati.

Il nuovo assunto dal canto suo non si accontenta di avere un posto di lavoro nel quale poter svolgere delle attività, ma ha necessità di capire come poter comunicare con i colleghi, come poter valorizzare sé stesso, come poter ottenere autonomia o supporto e tutto questo non viene spiegato dalle procedure aziendali.

Ecco perché un onboarding efficace è un percorso che azienda e neo assunto fanno assieme e che può diventare un elemento fondamentale nell’attrarre talenti sul mercato.

La prima regola per creare un processo di onboarding che sia di valore parte da una valutazione della persona per comprenderne i punti di forza e le aree di miglioramento.

La seconda è quella di dare al neo assunto un punto di riferimento: un mentore che possa metterlo nelle condizioni di rendersi consapevole di come poter meglio inserirsi nella nuova organizzazione.

La terza è quella relativa al tempo: un percorso non può durare qualche giorno, ma deve avere una durata ragionata e prevedere dei check point per valutarne l’andamento. Per dare un’indicazione in termini di tempo sarebbe strano un percorso di onboarding della durata inferiore a quella dedicata alla selezione della persona assunta.

In conclusione, assumere la persona che meglio si adatta alla nostra Azienda è un elemento fondamentale, ma anche dare gli strumenti per supportare il suo adattamento è parimenti importante.

Oktopous s.r.l.