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Meglio il controllo o la fiducia? Come gestire i propri collaboratori​

Meglio il controllo o la fiducia? Come gestire i propri collaboratori

L’emergenza Covid-19 ha portato alla ribalta nel nostro paese l’utilità dello smart working, nonostante prima della pandemia questo fosse poco diffuso. 
Lo smart working in deroga è stato uno dei provvedimenti adottati dal Governo italiano per arginare e contenere il diffondersi del virus e l’aumento dei contagi oltre alla chiusura degli istituti scolastici e lo svolgimento della didattica a distanza.
Tutto ciò era finalizzato a:

● diminuire i contatti tra le persone;

● agevolare la conciliazione vita / lavoro.

La legge è intervenuta facilitando il ricorso allo smart working, con un accesso “semplificato” senza obbligo di accordo individuale tra azienda e dipendente come prevede il testo del 2017. Si è trattato infatti di una procedura molto più rapida per poter accedere al lavoro agile in tempo di pandemia.

Oggi, a distanza di più di un anno da tale provvedimento, le aziende stanno tornando al lavoro in presenza.

Soprattutto per le piccole organizzazioni il lavoro in presenza è ritornato quasi totale. Per le grandi imprese industriali e dei servizi invece il rientro è più graduale e prevede ancora diverse giornate lavorative svolte da casa.

Nel complesso comunque tra privato e pubblico sono circa 1,5 milioni i lavoratori che sono tornati o stanno per tornare in ufficio. Oggi infatti secondo uno studio del Politecnico di Milano il numero dei lavoratori in smart working è sceso a poco più di 4 milioni rispetto ai 6 registrati durante il picco della pandemia.

Il lavoro agile ha sicuramente rappresentato per molte aziende del panorama italiano una soluzione all’impossibilità di avere i propri dipendenti in ufficio anche a causa delle norme sul distanziamento e sicurezza dei luoghi di lavoro.

Ma siamo sicuri che un ritorno massivo in ufficio sia una buona soluzione per le imprese?

Per più di un lavoratore su 4 lavorare da casa per gran parte della settimana rappresenta una soluzione ottimale per gestire con equilibrio vita privata/lavoro, le difficoltà dei trasporti e contenere i costi.

Molti grandi gruppi stanno optando per la formula: 3 giorni in ufficio e 2 a casa.

È innegabile che oltre a rappresentare un indubbio vantaggio per i lavoratori il lavoro agile comporta una riduzione di costi per le aziende: meno postazioni, spazi più contenuti, minori consumi, ecc…

Allora perché questo dietrofront?

Spesso la scelta viene presa dalle aziende più che dai lavoratori e viene giustificata dalla difficoltà di controllare il lavoro delle proprie risorse.

Ma è proprio indispensabile “controllare” di persona?

Non ci sono altri modi per ottenere i risultati che l’azienda si prefigge senza necessariamente avere la persona in presenza?

Probabilmente il tema è culturale. I manager dovrebbero innanzitutto promuovere il lavoro per obiettivi, formare le risorse a questo approccio e creare strumenti e modalità di interazione che permettano di monitorare l’andamento dei progetti anche senza la presenza delle proprie risorse nello stesso spazio fisico.

Non bastano quindi le competenze, è necessario formare i propri dipendenti affinché possano sviluppare al meglio anche le proprie soft skills.

Grazie alle competenze trasversali infatti le vostre risorse saranno in grado di comunicare al meglio attraverso gli strumenti tecnologici, riusciranno a lavorare meglio in team, affronteranno i compiti assegnati con maggiore orientamento agli obiettivi.

Vi sono diverse soluzioni sul mercato volte a selezionare nuovi candidati che hanno sviluppato maggiormente le soft skills, ma vi è solo uno strumento, Jemma Adaptability Index, in grado di misurare l’adattabilità del candidato alla vostra realtà aziendale. Jemma inoltre vi permette facilmente di analizzare anche le risorse già presenti in azienda.

Da oggi lo smart working può rappresentare l’arma vincente per milioni di aziende italiane. 

Vittorio Nascimbene

Founder & Ceo, Ricercamy s.r.l.

 

Mi occupo da vent’anni di Ricerca e Selezione del Personale.

Una forte curiosità unita al desiderio di trovare nuove formule per soddisfare le esigenze di recruiting dei clienti sono la mia missione.

Credo fortemente che l’unione di competenze e tecnologia rendano l’Head Hunting Smart.

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Killer Questions: Killer per chi?

Killer Questions: Killer per chi?

In un mondo del lavoro sempre più digitalizzato ed informatizzato, il Web propone ogni giorno infinite possibilità a chi sta cercando una nuova occupazione.

Notiamo nuove realtà lavorative in ogni momento, mentre guardiamo le notizie o rispondiamo a una e-mail, e in alcuni casi…proprio mentre stiamo lavorando.

Dai Social Network come Linkedin, ai siti di recruitment come InfoJobs, Monster e Indeed, la ricerca del lavoro appare più dinamica e veloce rispetto al passato, e sempre meno basata su un’impostazione classica del tipo “porta a porta”, con curriculum cartaceo alla mano. Nel 2014, l’Istat evidenzia questo cambiamento: il 63,6% dei giovani tra i 15 e i 34 anni utilizza Internet per cercare lavoro.

Per far fronte alla grande quantità di autocandidature in entrata, le risorse umane ricorrono all’utilizzo di strumenti tecnologici in grado di velocizzare la verifica dei requisiti necessari che sembrano essere, nella maggior parte dei casi, “imprescindibili”. L’implementazione di una metodologia che filtra in modo automatico le candidature, prima di destinarle alle mani dei selezionatori, taglia fuori gran parte di coloro che vogliono proporsi per un nuovo lavoro, ma non possiedono in quel momento tutti i requisiti necessari.

Stiamo parlando delle cosiddette Killer Questions, ovvero domande strategiche e altamente specifiche, poste alla fine di una candidatura spontanea, che, in modo semplice e immediato, verificano se il candidato possiede le competenze tecniche richieste oppure indagano su informazioni più generali, come ad esempio “Sei disposto a trasferirti per lavoro?”.

Se da un lato l’utilizzo di questi strumenti facilita e velocizza il lavoro di scrematura dei Curriculum da parte degli addetti delle risorse umane, dall’altro ricordiamo che le Hard Skills possono essere insegnate (e acquisite) investendo il tempo necessario, e che non rappresentano l’intera gamma di competenze che il candidato possiede.

Le Soft Skills, infatti, considerate parte fondamentale del lavoratore, rispecchiano il back-ground socio culturale della persona, e sono la somma di tendenze comportamentali ed esperienze di vita, lavorativa e non.

Pensiamo a un candidato che nel momento della candidatura manca della competenza “linguaggio JavaScript”, ma che è tendenzialmente predisposto al raggiungimento di obiettivi, possiede senso di autoefficacia e ha fiducia in sé. Se adeguatamente formato, raggiungerà il livello di coloro che già in partenza possiedono la competenza, ma che non necessariamente possiedono la determinazione del nostro candidato.

In un’ottica di valorizzazione del lavoratore in ogni sua sfaccettatura, l’applicazione di “domande killer” a competenze meno tecniche e più umane, come nel caso delle Soft Skills, risulta limitante.

Ad esempio, saper comunicare efficacemente, essere in grado di tenere testa allo stress o saper lavorare in gruppo sono capacità relazionali e comportamentali difficilmente valutabili tramite un’unica e schietta domanda, e, per via della loro natura complessa, necessitano di un ottimo valutatore.

Le Soft Skills rappresentano un fattore cruciale di differenziazione tra i lavoratori, e possono favorire o ostacolare il successo del singolo, ma anche dell’azienda. Uno studio del 2018 (World Economic Forum’s Future of Jobs Report) sottolinea l’importanza di queste competenze trasversali, e, allo stesso modo, la difficoltà di individuarle durante la fase di assunzione. L’effettiva presenza di Soft Skills, è verificabile principalmente sul campo, o tramite strumenti realizzati ad hoc, come ad esempio il nostro Jemma Adaptability Index.

L’utilizzo di domande Killer volte all’esclusione dei candidati “non competenti”, porta con sé il rischio di minimizzare e sottovalutare il lavoratore nella sua totalità. In questo senso, tali domande potrebbero risultare “killer” più per l’organizzazione, che rischia in questo modo di perdere talenti, che per il candidato.

Unveil Consulting s.r.l.